Si è fatta vivace la polemica (tra gli esperti e meno sulla stampa) sulla  qualità dei premi letterari, come problema succedaneo a quello della qualità delle opere partecipanti, qualunque sia il settore di pertinenza, poesia, narrativa, teatro o saggistica.

L’argomento certamente si semplifica se si cercano delle buone opere letterarie, anziché attendersi che dalle rose delle opere scelte e dai testi vincitori dei capolavori. Infatti, la necessità delle case editrici di mettere sul mercato opere appetibili per la vendita fa sì che le redazioni provvedano a aggiustare/migliorare mediante un lavoro di revisione  il testo da pubblicare viene sottoposto ad un lavoro di revisione.

Si pensa cosi di assecondare il gusto e i desideri del lettore. In realtà tale lavoro rende uniforme la scrittura,  elimina le asperità letterarie e linguistiche per una produzione complessivamente appiattita (salvo eccezioni).

D’altro canto, i premi letterari impegnati a procurarsi  il maggior consenso possibile, hanno creato delle giurie, dei comitati, dei gruppi di lettura, immettendo comuni lettori (spesso studenti) che producono un risultato certo: vengono scelti per la premiazione testi “facili” per comprensibilità allargata e – pur non in forma automatica – di minore qualità letteraria o artistica. E quindi fin dall’interno delle giurie se ne ha consapevolezza quando si commenta – come è capitato – che i libri in concorso sono “incolori, inodori e insapori”.

Non esistono più giurie che si astengono dal premiare testi ritenuti non all’altezza, come è capitato più di una volta in passato. E ciò avviene anche perché spesso le stesse giurie sono troppo ampie per permettersi una decisione di merito coraggiosa. E succede sempre più spesso che accanto a libri di qualche qualità convivano altri di poco o nessun valore; e capita sempre meno che i premi siano sicuri indicatori di testi di qualità.

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